Gli Italiani, il lock down e il cibo II

Gli Italiani, il lock down e il cibo II

Un questionario per mappare le abitudini delle famiglie durante il lock down, parte II

Il questionario inviato agli italiani risponderà all’annosa domanda: ma il fresco, lo compriamo nei negozietti vicino a casa o al supermercato? Ma anche, sappiamo distinguere fra le diverse tipologie di prodotti offerti (laddove, effettivamente, le tipologie differiscano, poiché non tutti i piccoli negozi si riforniscono a km zero con prodotti “del contadino”), sappiamo individuare il cibo salutare, lo acquistiamo e assumiamo correttamente?

Ma la questione va ben oltre il questionario che ci è servito da spunto: se durante il lock down gli italiani avessero acquisito buone abitudini alimentari, per esempio riabituandosi a cucinare, a fare in casa pasta, dolci e addirittura pane, le abbandoneranno? Se hanno fatto rifornimento, dove possibile, “dal contadino” e dal negozietto che tiene solo “specialità locali”, sapranno fare distinzione fra cibi sani e non, da cibi sostenibili e non. Da cibi biologici e non. Sapranno leggere le etichette? La facilità di accesso al cibo buono e salutare sia in termini di accesso fisico sia in termini economici, è la base della democrazia alimentare e vediamo bene le condizioni di salute degli abitanti di quei paesi (USA intesta) dove il cibo a poco prezzo ampiamente consumato è cibo “malefico”, spinto anche nei menù scolastici dai lobbisti delle potentissime multinazionali alimentari.

Bio-illogico, il grande problema della filiera

È proprio di questi giorni la polemica scatenata da Report proprio sui prodotti bio-illogici: si parla del bio venduto in alcuni marchi della GDO, che spacciavano, non si sa quanto in buona fede, cibi per biologici senza aver debitamente controllato l’intera filiera.

Un sondaggio di Supermercato24 ha recentemente fotografato il carrello della spesa degli italiani, e rivela che la spesa per prodotti biologici è aumentata addirittura del 50% su base annua e che il 63% guarda con interesse ai prodotti green, a basso impatto ambientale eccetera, ma pochi li comprano effettivamente. Ovviamente il primo problema è il prezzo ma anche le etichette poco chiare, che rendono difficile individuare i prodotti autenticamente green.

E la UE, che dice? Insistendo sul progetto di “assicurare una transizione verso un sistema alimentare sostenibile che garantisca la sicurezza alimentare e l’accesso a una dieta sana prodotta su un pianeta sano”, la strategia cosiddetta “farm to fork”, si renderà conto, come sostiene Federagricoltori, che nella situazione attuale questa trasformazione creerà molti costi aggiuntivi e quindi minore competitività per le piccole e medie imprese produttrici, già pesantemente colpite dalla sventura Covid, e che, fra l’altro, sono fra le più green del mondo?

I nuovi sistemi di etichettatura: la prima vittoria dell’Italia

Fortunatamente, il peso in Europa dell’Italia, almeno dal punto di vista della politica alimentare, è elevato. Il Bel Paese sembrerebbe aver visto la guerra delle etichette con l’assunzione, da parte dell’Unione Europea, delle ‘Nutrinform Battery’, l’etichetta basata su un simbolo “a batteria” che indicherà al consumatore l’apporto nutrizionale dell’alimento in rapporto al suo “fabbisogno giornaliero e al corretto stile alimentare, evidenziando la percentuale di calorie, grassi, zuccheri e sale per singola porzione rispetto alla quantità raccomandata dall’Unione europea”. Fuori dal sistema a batteria i prodotti a denominazione di origine (come IGP e DOP ad esempio), scrive Fabiana Luca su EUnew.it, “in virtù del loro status di assoluta eccellenza, evitando così il rischio di confondere il consumatore e di banalizzare tali prodotti”.

Battuto Nutriscore, il sistema di etichettatura nutrizionale, di fatto basata sulla percentuale di grassi, zuccheri e sale contenuta nei prodotti, che arriverebbe a colpire diversi simboli della dieta mediterranea e che rischia di affermarsi nell’Unione Europea sotto la spinta delle multinazionali” rischiano di danneggiare  ingiustamente quasi “l’85 per cento in valore del Made in Italy a denominazione di origine controllata. Addirittura “un’etichettatura del genere potrebbe svantaggiare gran parte dell’export Made in Italy, come il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano e anche il Prosciutto di Parma. Davide e Golia sono ancora in campo. La differenza non la farà una pietra. Piuttosto, un carrello.



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